testo di Enzo Bilardello
Senza “Uno sguardo al passato”, dal titolo di una rimemorazione di Kandinsky, non si capisce quasi nessun artista russo, specie se ha vissuto una parte della vita in patria e una parte all’estero, emigrato, autoesiliato o transfuga. La Russia ha proceduto con due pulsioni attive in una sola anima: la prima mira a far esistere solo la propria spiritualità, “la grande anima russa”, come è tradizionalmente chiamata; la seconda vuol fondersi nel grande crogiuolo europeo, tributaria e sorella minore, a dispetto delle dimensioni macroscopiche, di Francia e Germania, di Inghilterra ed Italia. Fu Pietro il Grande, per primo, a volere protestanti ed ebrei, perseguitati altrove, ma portatori di un sapere moderno ancora ignoto alla Russia medievaleggiante. Continuò Caterina II e italiana fu la lingua dell’arte, francese quella del bel vivere e dell’intellettualità, nonostante Napoleone. In tempi più recenti, Kandinsky, Chagal, Malevic e tutti gli altri non si spiegano senza il ricorso al meticciato culturale: forme europee - cubismo, futurismo, fauvismo - e contenuti autoctoni oppure riplasmazione totale in natura russa di messaggi provenienti dall’estero. Il voler far tutto da sé comportò che ci fosse con due secoli di distanza un realismo locale, vero quanto può esserlo il vero esteriore, flagrante, anche se è impossibile estrarne e decifrarne una partenza caravaggesca. Mi sto riferendo qui al realismo ottocentesco che permeerà di sé gran parte dell’arte ufficiale novecentesca. Nel realismo socialista la dominante è il dispotismo, ma c’è anche la ricerca di un filone russo autentico ed incontaminato. Noi oggi sappiamo che d’incontaminato non esiste nulla, tantomeno l’arte. I pittori russi potevano essere più genuini di altri per dedizione e sincerità d’intenti, i risultati erano per lo più folklore di terz’ordine. È una lezione: senza contaminazione e scambio non c’è grande arte. Nel frattempo cominciava a formarsi una dissidenza, l’arte si faceva nelle case private, in locali di fortuna, le novità si diffondevano per mezzo di un’improvvisata e rischiosa carboneria. Dalla fotografia di un’opera di Picasso, di Klee o di Pollock, pervenuta secondo percorsi peregrini, si tentava arte alternativa, arte che riprendesse il filo del discorso delle avanguardie fiorite impetuose entro gli anni ’20. Qualche europeo lungimirante comprava a vagonate quest’arte impubblicabile in Russia. Nella quantità qualcosa riluceva, ma era poco e non faceva di alcun russo un maestro paragonabile agli europei o agli americani. Altra lezione: essere indipendenti e rischiare il carcere o l’ospedale psichiatrico non genera automaticamente arte importante e necessaria. In questo contesto è vissuto Mikhail Koulakov. Ascoltandolo oggi, sembra che egli non senta più legami con alcuna terra, teso a pensare gli spazi siderali, gl’infiniti meandri dello spirito, l’atemporalità come luogo assoluto. In realtà, tutta la sua opera è permeata della spiritualità artistica russa, fatta di compassatezza, riflessività ed eccessi, malinconia e furia iconoclasta. Nelle buie cappelle delle chiese ortodosse le icone risplendono come una ierofania, fermando il tempo di chi le contempla. La conversazione con i preti riporta indietro gli orologi come se Ario e Mani fossero ancora attuali e pugnaci. Questo gorgo, questo viluppo di passioni ancestrali aveva bisogno di un catalizzatore per manifestarsi e divenire esplosivo. Koulakov ha trovato l’innesco alla propria dinamite nell'“action painting” americana ed in particolare in Pollock. Mi piace ricordare come l’ingegnere minerario russo, polacco, belga, etc. un emigrante perenne insomma), Haroun Tazieff divenne vulcanologo. Egli si trovava in Congo quando seppe dagli indigeni in fuga dell’eruzione del Kivu. Presa la jeep in direzione del vulcano all’improvviso si trovò di fronte ad una colonna di fuoco di cento metri di diametro e alta un chilometro: il senso di una vita cambiò all’istante. Quando vidi per la prima volta le opere di Koulakov ebbi l’impressione di un magma che schizzava in vortici a velocità crescente, tracciati incandescenti di meteoriti, scontri di materiali cosmici. Alla violenza dei gesti si saldava la forza dei colori, emessi con energia, con profusione. Eppure, nulla era volgare in quella pittura, non appariva neppure gridata, a tal punto rifiutava l’ornamento, l’effetto cornucopia alla ricerca dell’essenza, della verità in equilibrio tra il gesto e la sua necessità interiore. Avere il fuoco dentro ed apparire compassati, vivere immobili in un luogo e spaziare con la mente nell’infinito, spezzare le catene del determinismo è l’ambizione di Prometeo, frustrata nel mito, rivissuta come agone e catarsi di Mikhail Koulakov nel suo grande e appassionato dipinto. Portare le catene che si possono sciogliere e rivalere un contenuto espanso quanto una galassia è la metafora contenuta nei Libri, oggetti enigmatici che, una volta aperti dipanano trasparenze, coaguli di colore a spirale, atmosfere di crepuscolo. Il desiderio d’infrangere i limiti fisici, di aspirare alla purezza ed alla perfezione è una costante dell’artista, che gli ha imposto di diventare un maestro di arti marziali (liberare il corpo dalle strettoie della banalità fisica) e di cercare un’arte lancinante (liberare la forma della rappresentazione meccanica della natura). Ma, per quanto Koulakov se ne difenda, la forma del passato talvolta riemerge: in una poesia di Puškin che gli detta Zefiro, meandri di materia preziosa che si svolgono in uno spazio siderale, freddo e infinito, oppure delle povere calzature contadine, ricordo della propria infanzia che ritorna ad impregnare di nostalgia e di rimpianto il presente. Koulakov sostiene di non aver più alcun interesse per le proprie radici. Egli mente, candidamente ed inavvertitamente, poiché tutto il suo lavoro è una spola incessante tra il passato visto con tutte le gradazioni delle emozioni, dall’ira all’elegia, ed un presente che vuole acchiappare la coda alla cometa dell’infinito, farlo essere un artista orientale, occidentale, artista tout court. Le Bandiere sul Tibet, che prendono il nome da una carta orientale e sono in equilibrio precario tra immobilità del supporto prezioso e opaco nello stesso tempo, e la macerazione di questa carta, torturata, spiegazzata, ridistesa, come una bandiera che è stata molto contesa. La chamade è il rullo dei tamburi che segna la fine della battaglia. Segue un silenzio irreale, la quiete che azzera le passioni. Così Koulakov in certi momenti lirici della sua vita e della sua opera, ma subito dopo si può star certi che il furor creativo gli imporrà dipinti come Totem o Circo, tripudi di colori e sfrenatezza da vero russo, una specie di Nijinskij prestato alla pittura.
|
|