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Koulakov artista russo
fra Rubliov e Malevic

testo di Costanzo Costantini e Galina Smirnova

Diceva Salvador Dalì ”Io sono un pessimo pittore, ma dipingo sempre meglio del Beato Angelico”. Dice Mikhail Koulakov: “So dipingere un ritratto, un paesaggio, una natura morta, fare delle composizioni libere. Disegno un po’ peggio di Picasso, sento il colore come Van Gogh, potrei fare lo scultore, lo scrittore. Ma non so nulla di ponti e fortificazioni e non potrei mai presentare ad un novello Sforza, purtroppo, una lista delle mie capacità più completa di quella di Leonardo”.

Nelle sue note autobiografiche e nelle sue dichiarazioni Mikhail Koulakov, parlando della sua formazione, cita in particolare due nomi: Rubliov e Malevic: “Sono stati questi i miei primi due grandi maestri”, dice di Rubliov, il monaco pittore celebrato da Andrej Tarkovskj nel film omonimo, ammirava in special modo 1’ Icona della Trinità, la più alta rappresentazione dell’arte russa antica. Di Malevic, la tendenza a scoprire una “nuova sensibilità”, a tradurre in pittura la realtà nascente, a infrangere i vecchi canoni e i miti più consacrati, (la sua Composizione con Monna Lisa senza testa e il viso segnato di rosso precede di cinque anni la Gioconda con baffi e barba di Marcel Duchamp).

Rubliov e Malevic, come dire la tradizione più pura e l’avanguardia più trasgressiva e novatrice. Sarebbe forse bastato questo binomio a caratterizzare la personalità artistica “in fieri” di Mikhail Koulakov. Ma la sua è una biografia piuttosto accidentata, come molte delle biografie degli artisti che vivevono nella Russia del realismo socialista sotto l’alto stimolo intellettuale dei teorici della scuola di Andrej Zdanov e l’occhio fraterno e protettivo degli agenti della polizia segreta. O, fuor dall’ironia nella Russia della repressione più ottusa di ogni libera espressione creativa, nel clima della guerra fredda e della crescente contrapposizione fra est e ovest. Per taluni aspetti, la vicenda personale di Mikhail Koulakov richiama alla mente quelle di Josif Brodskij e di Andrej Tarkosvkij, il poeta e cineasta con i quali divideva oltre l’amore per l’arte russa e l’avversione per ogni forma di costrizione, anche il senso romantico della vita, la concezione metafisica del mondo, la visione cosmica dello spazio nonché il destino di esule in Italia o in Occidente.

Nato l’8 gennaio del 1933 a Mosca nel quartiere della Transmoskova, Mikhail Koulakov frequenta sin dell’adolescenza la galleria Tretiakov, che sorge nelle vicinanze, presso il Cremlino. Più o meno negli stessi anni si reca per la prima volta a Leningrado o San Pietroburgo, la città che nelle Notti bianche Dostoevskij definisce “la più astratta e premeditata del globo terrestre”, visitando l’Ermitage, il Museo Russo, le splendide costruzioni degli architetti italiani.
Abbandona quindi il prestigioso Istituto delle Relazioni Internazionali, nel quale era entrato perché i genitori coltivavano il sogno che abbracciasse la carriera diplomatica, e si orienta verso l’arte, incominciando a dipingere. Vagheggia di diventare un pittore celebre, come Repin come Shishkin, se non come Rubliov e Malevic.
Ma la realtà frustra i suoi progetti, costringendolo a spostarsi da un luogo all’altro, da Mosca a Leningrado e da Leningrado a Mosca, in una sorte ti turbine esistenziale alla ricerca delle condizioni che gli consentano di sopravvivere e di dedicarsi all’arte. Dopo un periodo si stenti e di lavori precari entra nel reparto scenografico del teatro moscovita e continua a dipingere. Alle pitture ispirate a Rubliov e Teofane il Greco, alterna quadri d’un genere molto diverso, più Maly e qualche tempo dopo si laurea in scenografia a Leningrado sotto la direzione del regista - pittore Nikolaj Akimov e continua a dipingere.

Alle pitture ispirate a Rubliov e Teofane il Greco, alterna quadri d’un genere molto diverso, più liberi, più inventivi, tendenzialmente astratti, inseguendo il miraggio del “colore invisibile”, provandosi nella deformazione cubo-picassiana, tentando anche il Tachisme, il Dripping, l’Action Painting. Nel frattempo o nello stesso tempo, riesce a vedere, tramite critici amici, le opere degli avanguardisti russi d’inizio secolo negli scantinati dell’Ermitage, del Museo Russo, della Galleria Tretiakov.
“Fu per me una folgorazione”. dirà in seguito La sua via sarebbe tracciata, lungo l’arco glorioso della tradizione artistica russa rinnovata dalla rivoluzione delle avanguardie.
Ma, enfant terrible, in possesso d’una grande energia interiore, munito d’un orgoglio indomabile, dispiega una frenetica attività nei campi più disparati: pittura, grafica, teatro, didattica… Tiene mostre dove gli è possibile, in ambienti nascosti e inaccessibili ai censori, illustra libri dei poeti che più ama, cura le scene di spettacoli teatrali, raccoglie successi (“I miracoli nel mondo non sono finiti, esistono ancora nella pittura di Koulakov”, scrive il pittore Igor Diment a proposito d’una sua mostra).

Sul finire degli anni Cinquanta un fatto nuovo. Per sfuggire ai canoni ufficiali, incoraggiato dal disgelo incipiente, incomincia a guardare verso l’occidente, agli artisti europei e americani, di cui viene a conoscenza nella biblioteca Lenin tramite Art-News. La rivista che riproduce opere di Jackson Pollock, Mark Tobey, Georges Mathieu, opere che successivamente può vedere in una mostra allestita nel parco di Sokol’niki. Come i pittori Nemukhin, Masterkova e Sverjev, si interessa più direttamente del Tachisme, del Dripping, dell’Action Painting.
Ma non sarebbe stato meglio che avesse continuato a interessarsi di Leonardo, piuttosto che di Jackson Pollock, Mark Tobey, Georges Mathieu?
Non è Leonardo, questa fonte immensa di sapere - studiando i suoi disegni il cardiologo inglese Francis Wells ha rivoluzionato la tecnica operatoria, che ha dato origine anche al Tachismte, al Dripping, all’Action Painting?
Non è Leonardo che presentava una grande attenzione alle macchie che l’umidità forma sui muri, quale stimolo per destare l’ingegno a varie invenzioni, come ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, battaglie, figure strane ed infinite cose?

“Quello non sarà universale - si legge nel Trattato della Pittura - che non ama egualmente tutte le cose che si contengono nella pittura: come se uno non gli piace i paesi, esso stima quelli esser cosa di breve e semplice investigazione, come disse il nostro Botticella, che tale studio era vano, perché col sol gettare una spugna piena di diversi colori in un muro, essa lascia in esso muro una macchia, dove si vede un bel paese. Egli è ben vero che in tale macchia si vedono varie invenzioni di ciò che l’uomo vuole cercare in quella, cioè teste d’uomini, diversi animali, battaglie, scogli, mari, nuvoli e boschi ed altre simili cose”.
Negli anni della guerra, durante il suo soggiorno newyorkese, Sebastian Matta, partendo dai precetti di Leonardo nonchè dalle idee di Freud e dai test sulle macchie condotti da Rorschach, tiene nella sua casa sulla Nona Strada esperimenti di pittura automatica e spontanea ai quali partecipano, fra gli altri: Gorky, Batiotes e lo stesso Jackson Pollock.
(Ai suoi esperimenti è presente anche Max Ernst, il quale stende la tela sul tavolo e attacca i pannelli impregnati di colori al lampadario, facendolo oscillare come l’orologio a pendolo della nonna a Bruehl, il suo paese natale in Germania).

Raccontava Matta: “Pollock, Batiotes, Motherwell presero ad imitarmi meccanicamente, senza capire le ragioni profonde in base alle quali conducevo i miei esperimenti. Io dicevo a Pollock: “Se guardo un sordomuto capisco quello che dice dal movimento delle labbra, se guardo te non capisco un’acca perché sei sempre ubriaco e stai sempre a masticare chewingum”.
Può darsi che Pollock avesse visto come usavano i colori i muralisti messicani, specialmente Siqueiros, ma la lezione di Matta era stata decisiva anche per lui.
Si dice che dopo aver impregnato la tela di colori ci camminasse sopra o ci girasse su addirittura in bicicletta. Forse è frutto della leggenda sorta intorno al suo nome dopo che nell’agosto del 1956 era andato a schiantarsi con la sua vettura contro un albero in Fireplace Road, ma l’eco di queste cose era giunta anche in Russia. Secondo quanto scrive Enrica Torelli Landini. Koulakov e il suo amico Evgenij Michnov Vojtenko avrebbero inscenato una performace nella quale slittavano con i piedi sulla tela stesa a terra e impregnata di colori. Ora Koulakov è troppo spiritoso, ironico e autoironico
per non ridimensionare queste performances. “Pollock mi aiutò ad esprimere spontaneamente l’energia che mi urgeva dentro”, si limita a dire. In verità, né lui né i numerosi fans del pittore americano amano tanto lo sport da credere che gli artisti possano trasformarsi in pattinatori o ciclisti e le tele, fossero pure quelle di cinquanta metri di cui fanno uso alcuni pittori odierni, in piste di pattinaggio o ciclabili. Toti Scialoja stendeva la tela per terra e vi spruzzava i colori danzandovi intorno come in un rito vudù, ma dalla cosiddetta Scuola di New York Alberto Burri - il maestro di Rauschenberg, di Tapies, dei giovani della Scuola di Piazza del Popolo, uno dei pittori italiani che Koulakov più ammira, apprezzava De Kooning, che era olandese. Rothko, che era lettone. Gorky, che era armeno.

Fatto sta che negli anni Settanta Mikhail Koulakov, come Andrej Tarkovskij e Josif Brodskj, abbandona la Russia e si stabilisce in Italia (Brodskij va ad insegnare negli Stati Uniti ma è quasi sempre in Italia, specialmente a Venezia, alla quale dedica Fondamenta degli Incurabili, il bellissimo racconto ripubblicato nel 1991 da Adelphi con alcune aggiunte rispetto all’edizione del 1989). Sino alla perestrojca egli è in patria un pittore invisibile, fantasmatico, clandestino.
Soltanto nel 1989-1990, con la mostra che gli viene allestita fra Mosca e Leningrado, è riconosciuto come uno dei maggiori esponenti della seconda avanguardia russa, come il più interessante rappresentante dell’arte astratta in Urss negli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta. Per l’occasione Vladimir Gorianov si adopera per ridurre l’influenza di Pollock su di lui, collocando l’opera in un “cosmo personale”, e Enrico Crispolti, uno dei suoi primi estimatori, scrive che in Italia è andato sviluppando in modo originalmente nuovo le esperienze precedenti, nelle quali, attraverso in linguaggio pittorico attuale, emergono i suoi legami con la tradizione russa sia colta, sia popolare.

Le tre grandi mostre successive - quella nel Complesso Monumentale San Michele a Ripa (1991), quella nella Rocca Paolina di Perugia (2003) e quella nel Museo Pushkin di Mosca (1993) confermano che Mikhail Koulakov è un pittore di livello internazionale, dall’estro sempre vivo, in grado di rinnovare se stesso e creare opere nuove.
Nel catalogo della mostra moscovita Massimo Duranti gli attribuisce un sapiente equilibrio fra gestualità meditativa, ricerca dello spazio e splendore cromatico, mentre Marina Bessonova, pur giudicandolo anche lei un continuatore della avanguardia storica russa, lo proclama a spada tratta espressionista astratto russo, per l’irruenza spontanea dei colori, la spiritualità, la ricerca della verità o dell’assoluto. Ma sul piano spirituale, filosofico, ontologico c’è forse qualche differenza fra Koulakov e gli espressionisti astratti americani, per i quali il Tachisme, il Dripping, l’Action Painting erano perlopiù delle tecniche pittoriche o, come per Pollock, un modo particolare di usare il pennello e il corpo. No: l’etichetta di espressionista astratto russo lo mutila, lo limita, non gli è propria. Persino Rauschenberg la rifiutava.
“Né io né Jasper Johns siamo stati espressionisti astratti, mi disse nel 1991 a Roma, alla Galleria I1 Gabbiano, dove aveva esposto gli ultimi suoi quadri a proposito dei quali Achille Bonito Oliva aveva citato nel catalogo la lezione di Leonardo sulle macchie. Com’era Pollock nella vita? gli chiesi. “Ogni volta che mi incontrava, mi diceva: “Scusami, non ricordo il tuo nome, come ti chiami?’ Non ricordava il suo nome perché beveva come lei?, gli chiesi: “Io bevo, ma lui non riusciva mai ad aprire le porte”. Peraltro negli anni Cinquanta - Sessanta, durante il periodo leningradese, Mikhail Koulakov si era interessato all’arte, alla filosofia e alle discipline marziali estremorientali e aveva preso familiarità, già prima che vedesse le opere di Pollock, con la tecnica del segno, dell’azione pittorica, che è antica quanto il mondo.

Mikhail Koulakov non è un espressionista astratto russo, ma un pittore russo, formatosi studiando gli artisti del proprio paese, da Rubliov e Teofane il Greco agli avanguardisti dei primi decenni del secolo, che condensa in una sintesi superba culture artistiche eterogenee o eteroclite - russa, indiana, giapponese, africana, europea, occidentale, nella quale rifulge l’oro puro, l’abbagliante fasto cromatico dell’arte russa, antica e moderna.
“Senza ‘Uno sguardo al passato’, dal titolo di una rimemorazione di Kandinskij - scriveva Enzo Bilardello nel catalogo della mostra del 2003 alla Galleria Giulia di Roma - non si capisce quasi nessun artista russo specie se ha vissuto, come Mikhail Koulakov, una parte della vita in patria e una parte all’estero, emigrato, autoesiliato o transfuga. La Russia ha proceduto con due pulsioni attive in una sola anima: la prima mette in luce la propria spiritualità, ‘la grande anima russa’. come è tradizionalmente chiamata: la seconda vuol fondersi nel grande crogiuolo europeo, tributaria, a dispetto delle dimensioni macroscopiche, di Francia e Germania, di Inghilterra e Italia”.

Nella mostra, che s’intitolava “celare il cielo”, figurava in primo piano Prometeo, la bellissima tempera viola-nero-rosso alla quale facevano seguito le tre tecniche miste Libri d’artista, la stupenda tempera Zefiro notturno, le quattro tecniche miste Libri d’artista, la stupenda tempera Zefiro notturno, e quattro tecniche miste Znfunzia di Misha, la tempera Circo, le tre tecniche miste Bandiere su Tibet e i due inchiostri di china Black and White.
Scriveva Mikhail Koulakov, riferendosi al primo quadro. “Prometeo aveva portato agli uomini il fuoco - il Prahna in sanscrito - e gli dei lo punirono perché ritenevano che gli uomini non fossero ancora pronti ad adoperarlo in modo giusto. E adesso lo sono?
La risposta a questa domanda è superflua.
Mikhail Koulakov ha avuto il privilegio di intrattenere una affettuosa amicizia con Lily Brik, la musa di Majakovskij, che nel ‘74 fu testimone alle sue nozze con l’italiana Marianna Molla (il testimone per la sposa fu il Premio Nobel Piotr Kapitza), dopodichè, nel ‘76 aveva lasciato la Russia per stabilirsi in Italia.

Andrej Tarkovskij diceva che aveva lasciato la Russia perché non riusciva a lavorarvi liberamente ma che non riusciva a lavorare liberamente neppure in Italia, che era profondamente deluso dall’Italia ma non poteva né restare in Italia né tornare in Russia, per la quale sentiva una nostalgia struggente: Ne sine te nec tecum vivere possum, diceva, citando Ovidio. Aggiungeva, in tono disperato: “Ora tutti i sogni mi rimandano al luogo in cui sono nato, alla terra in cui sono cresciuto. Mi è difficile far capire a chi non è russo che cosa sia la nostalghia. La nostalghia è una malattia, che può essere anche mortale. Chi non la vince, muore”. Lui non l’aveva vinta, ma era andato a morire a Parigi.
Mikhail Koulakov dice invece che in Italia ha trovato il proprio equilibrio, ma non è facile credergli. Che abbia trovato il proprio equilibrio in un paese “squilibrato’’ come l’Italia è un fenomeno portentoso. Non si sa se soffra anche lui di nostalghia, ma si può pensare che la malattia l’abbia vinta. C’è tuttavia una spiegazione al suo caso: egli vive e lavora nella campagna umbra, in una solitudine pressoché assoluta, nella quale non vede nessuno e non ode che il canto degli uccelli e il suono delle sculture mobili appese all’ingresso del suo studio.

La mostra attuale comprende, indicativamente, un Omaggio a Malevic, nonché due versioni di Cammino per sentieri notturni. Alba, Pomeriggio, Tramonto, Antigone, Omero, per un totale di diciotto opere, ma bastanti perché il visitatore possa farsi un’idea dell’arte di Mikhail Koulakov.
Nel catalogo sono riprodotti anche i versi del poeta sanpietroburghese Gleb Gorbovskij: “Cammino per sentieri notturni nei bosco misterioso. Non un fruscio non un calpestio - l’universo è come sospeso. In me l’eco di un sussurro: ascoltate, ascoltate: un sospiro e tutto svanisce”.