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Genesi

testo di Massimo Duranti

Un bilancio degli “anni italiani” o “terzo periodo” del lavoro di Mikhail Koulakov, artista moscovita, umbro d’adozione da più di un quarto di secolo, giunto alla piena maturità espressiva dei suoi settanta anni, è stato tracciato da una pluralità di voci critiche autorevoli. Da ultimo, Enzo Bilardello in occasione della recente mostra alla Galleria Giulia di Roma.

Ma già nel 1993, a Mosca, per il sessantesimo compleanno, in occasione della mostra Gli anni italiani, tenutasi nel prestigioso Museo Puskin, a cura di Marina Bessanova, che segnava la “riabilitazione” ufficiale della sua Russia della Perestrojka, si delineò una valutazione riassuntiva della stagione italiana con gli scritti di Leonid Bazanov, Luca Beatrice e di me medesimo.
Enrico Crispolti, che lo tenne a battesimo nel 1976, proprio all’inizio della esperienza italiana, conferma nel testo in questo catalogo la definitiva sedimentazione della pratica segnico-gestuale dell’artista come linguaggio informale proprio, al di là di riferimenti con l’Informale storico.

Questa doverosa mostra al CERP della Provincia di Perugia, sicuramente lo spazio espositivo più importante dell’Umbria, costituisce di per sé un più ampio ed aggiornato compendio materiale di una fervida attività espressiva che si arricchisce continuamente di scatti creativi, nell’ambito di una poetica e di un linguaggio definiti da tempo.
Per quanti non conoscessero la vicenda artistica di Koulakov, vale la pena ricordare la sua formazione all’Istituto delle Arti Teatrali di Leningrado, dove si laureò in scenografia con Nikolai Akimov. Modalità espressiva che esercitò per spettacoli teatrali a Leningrado, Mosca e Volchov, ma che affiora spesso nel dispiegarsi della sua produzione pittorica anche recente, come nel caso di Le quinte teatrali del 2000, armoniose simbologie evocatrici di ricordi esaltanti, cromaticamente molto contrastate e, soprattutto, nelle installazioni. Ha anche illustrato numerose opere poetiche e narrative. Il seguito della sua formazione è del tutto autonomo, spaziando dalla scrittura orientale alla tradizione delle antiche icone nel segno della ricerca della spiritualità nell’espressività artistica.

Assimilata la Genesis, la sua innata curiosità lo spinse a cercare le nuove forme di espressività che le avanguardie artistiche stavano elaborando lontano dalla Russia, delle quali arrivavano lontane e clandestine eco. La rivoluzione di Pollock la apprese da immagini sbirciate in qualche rivista e subito entrò in sintonia con l’espressionismo astratto che sentì come liberazione di energia. Ben diversi erano i linguaggi del realismo socialista imposti dal regime. Eppure, gli anni degli esordi di Misha sono fecondi di creatività, già allora modulati fra informale-gestuale-spirituale e esplosione cromatico-materica. Anni di sostanziale clandestinità artistica che gli negarono il confronto e il rapporto col pubblico, limitato all’incredibile modalità espositiva della “Apartament art”, le mostre negli appartamenti degli amici che non sfuggirono però al KGB.

Nasce allora quell’intimismo accentuato, quel quasi arroccamento, che si scioglierà in gran parte col suo trasferimento in Italia. L‘occidente immaginato era quello della libertà d’espressione, della possibilità infinita di cognizione di ricerca artistica, dunque di confronto, della scoperta di un’altra cultura e dell’universalizzazione della sua esperienza estetica e spirituale.
L‘impatto con l’Italia non fu traumatico, non subendo Koulakov tendenze e movimenti, avendo già consolidato la sua poetica e il suo linguaggio che attendevano le condizioni per un dispiegarsi libero da vincoli mentali e materiali.
Anzi, un certo intimismo trova nella dolcezza e nel lirismo del paesaggio umbro nuova linfa. Un impatto che ammorbidisce il segno informale in poesia pittorica. In questa terra trova ancora la Genesis, quello che nel 1993 definii “l’ombelico del mondo”, realizzando la sua universalità artistica, diventando cittadino del creato che dichiara di non sentire più alcuna nostalgia per la Russia natia, seppure negli esiti artistici più recenti torni alle origini, ma effettivamente si tratta di origini simboliche che esulano dalla geografia.

Da sempre Misha ha cercato lo spazio dell’universo con cui incontrarsi e confrontarsi. In Italia ha trovato appieno le condizioni per la sua scoperta, avvalendosi della meditazione Zen, da sempre coltivata, e della pratica del Tai con la quale è arrivato al controllo e all’equilibrio mente-corpo. Esercizi che creano e modulano quell’energia che si rivela, appunto, variamente dispiegata nelle sue opere. Significativa, proprio riguardo al rapporto fra la sua immaginazione creativa e la gestualità pittorica, la risposta a una domanda che gli ha posto Agostino Bagnato nel corso di una intervista del dicembre dello scorso anno. Parlando della realizzazione di un dipinto, Koulakov dice: “Mi sono fermato quando ho deciso che l’opera era compiuta. Sarei potuto andare avanti, tracciare altri segni alla stessa maniera di quelli precedenti, ma mi sono reso conto che avevo terminato il mio progetto pittorico. Il mio modo di procedere prevede un forte autocontrollo per cui debbo essere io a decidere quando è giunto il momento di fermarsi. La mano è guidata dall’inconscio, dal sogno, ma il risultato deve essere controllato dalla coscienza, dal proprio essere razionale e pensante”. Non nega dunque l’automaticità spontanea di una creatività in divenire, ma precisa la fondamentale funzione mediatrice della coscienza.
Volendo ora tentare una sintesi per grandi capitoli delle modalità espressive più ricorrenti nell’opera di Koulakov degli “anni italiani”, dunque anche di quelle più recenti, si può operare una sorta di contenuta declinazione semiologica che coincide, anche se in termini non assoluti e, comunque, forse non casualmente, con i differenti strumenti: supporti, materiali e colori che l’artista utilizza parallelamente e a volte contestualmente.

Se la fonte primaria è, come abbiamo visto, l’energia, seppure variamente modulata e il denominatore comune del linguaggio è l’aspetto segnico-gestuale che dall’energia stessa deriva, varie ed articolate sono le forme della estrinsecazione grafica, pittorica e quelle più complesse delle installazioni ed ambientazioni con cui Koulakov si esprime ciclicamente da sempre.
I supporti cartacei: carte a mano, carte del Nepal, carta riso, carta più consistente, a volte con sovrapposizione delle stesse, sulle quali intervenire con tecniche miste, inchiostri o veli leggeri di colore sono state sempre molto usate dall’artista non solo perché consentono una maggiore facilità di stesura, ma per la resa cromatica particolare nei diversi assorbimenti e per la leggerezza complessiva del risultato pittorico.
Si realizza insomma una gestualità morbida del segno e del colore che è una sorta di complessa scrittura pittorica, certamente derivata dai suoi studi giovanili delle calligrafie orientali. La continuità del segno, riprova di una gestualità controllata, la leggerezza delle trasparenze di colore, solitamente misurate nell’ampiezza della tavolozza, compongono immagini di grande serenità espressiva, in cui l’energia lascia il posto alla pura eleganza del segno e del colore, dunque a un’energia tutta interiore alla narrazione. È così nella serie Bandiere sul Tibet (I-II-III-IV) del 2002, dove gli elementi delle aste sono risolti con la leggerezza di un sorta di canne vuote appena delineate nelle loro rigature verticali. Le bandiere diventano impalpabili trasparenze irregolari di un marrone pallido: simboli antichi di un orgoglio che si invecchia, ma non viene mai meno. In altre opere del genere la ricerca è ancora più lieve, volendo l’artista limitarsi a giocare con le trasparenze e le grumosità dell’inchiostro di china nell’impatto gestuale primario e in quello successivo di abrasione casuale della carta a mano. Una terza modalità di intervento morbido sulla carta è quella più compositiva, che ha a che fare con la memoria, tematica oggetto d’attenzione anche in altre declinazioni, come vedremo. Nella serie cartacea Libri d’artista (I-II) del 2000, su fondi operati elegantemente come un raso, compaiono altri interventi circolari o semicircolari spezzati da linee verticali, con una tavolozza molto misurata nei contrasti, quasi un compendio e uno svelamento dei contenuti archetipici del libro: aperture rischiaranti, simboli, fantasie infantili. Un’attenzione al ludico che troviamo compiutamente espressa nella serie Gli aquiloni (I-II) in cui si dispiega una accentuata fantasia compositiva nelle vivacissime pennellate multicolori degli elementi dinamici di congiungimento dei fili che reggono l’aquilone dalla elegante coda di drago. Più meditativo, anche nella costruzione per piani, e al confine con la pratica più specificatamente pittorica di contenuto energetico, il discorso di Paesaggi celesti del 2001, un lavoro su tre piani orizzontali sovrapposti, in cui gli elementi spaziali sono ora morbidi (astri dalle scie luminose), ora più consistenti nella loro intrinseca dinamicità.
Nella pittura, come accennato, Koulakov rivela appieno l’energia dell’universo, che accumula nella assidua meditazione, in esplosioni cromatiche molto variegate e complesse di elementi pittorici resi corposi, talvolta, dal polimaterismo del gesso o di altri materiali che assumono valenze simboliche. È così in Spazio fisico I del 1976/77, nelle due immagini sovrapposte, dove realizza un’esplosione di forme sinuose e consistenti dotate di una energia tutta interna, scandita anche dalle cromie filamentose e dagli screzi di colore. Il tema della Genesis ritorna in Nascita della stella, del 1999, dove si manifesta una esplosione siderale creatrice di bianchi-gialli con intense scie luminose su un acceso scenario rosso. Più liriche le composizioni Lucciola del 2001 e Genesi del 1996 per la focalizzazione di elementi baricentrici luminosi descritti come segni di scritture, ancora orientali, ma dal forte contenuto energetico. Apparente contraddizione, in alcune delle sue ultime opere compaiono segni di figurazione. Precisa l’artista nella richiamata intervista che non si tratta di un ripiegamento, bensì di un manifestarsi spontaneo della figura “dal magma della gestualità”. Anche questo, forse, un inconscio ritorno alle origini, alla Genesis.
Nelle strutture in legno, delle vere e proprie installazioni, che l’artista ha realizzato numerose negli ultimi anni, coniuga efficacemente il discorso pittorico vero e proprio con l’interesse per il confronto con lo spazio fisico, operazione con la quale torna, in qualche modo, anche al discorso della sua formazione di scenografo. Un esempio specifico al riguardo lo troviamo in Macchie sull’erba del 1985 dove gli elementi di legno triangolari, ma diseguali si compongono in una simbolica capanna, un richiamo alla primitività e alla protezione, mentre le macchie di colore di una vasta tavolozza che compaiono sulle superfici hanno la funzione di mimetizzare la costruzione nella natura. In Trittico del 1986 c’è una sinergia fra supporti cartacei e legnosi. Una sorta di scatola aperta di legno contiene i simboli della pittura nelle carte incollate, mentre la valenza costruttiva della composizione è assicurata dagli spessori degli elementi geometrici in legno applicati in una seconda stratificazione.

Molto simboliche e accentuatamente liriche le composizioni-installazioni realizzate con oggetti di uso quotidiano della tradizione della Russia contadina: i “lapti”, scarpe fatte con corteccia di betulla intrecciata, le stuoie, la carta povera. In L’infanzia di Misha (I-II-III-IV) del 2002, Koulakov cerca le sue origini e le evoca nostalgicamente nella materialità povera di riscoperti reperti.
Dal segno spirituale alla materia energetica, alla fisicizzazione dello spazio, fino al recupero oggettuale della memoria, Misha compendia negli “anni italiani” tutta una vocazione artistica di elevata qualità.